
“Buongiorno signora Sonia,
ho letto il suo libro :
“ Pensa Scrivi Vivi.
Il potere della scrittura terapeutica“
e ne sono rimasta affascinata
perché mi ha dato molto
da riflettere su me stessa.
È appena passato
il Natale e mi piacerebbe
chiederle quale dono
sarebbe più gradito, più sentito,
in una società che viene definita
la società della tecnica,
lontana dal tempo umano
e dei sentimenti che ci rendono unici.”
Cara signora Francesca, la ringrazio per la sua vicinanza e devo dirle che confido molto nella parola piena del dono a cui noi dovremmo imparare a dare nuovi significati.
Le parlo della mia esperienza e non da ultima quella che sto incontrando con i giovani nelle diverse classi in cui propongo il mio progetto di scrittura terapeutica; si sviluppa un confronto di scrittura e di dialettica fra i giovani e noi adulti cosi intenso che diviene sempre più forma insaziabile di vita man mano che la conoscenza reciproca procede nella condivisione di sentimenti e di memorie.
Il primo suggerimento che le lascerei pensando al tema del dono, rappresenta il fondamento delle condivisioni in classe ed è quello di far circolare le parole che creano senso, conoscenza delle interiorità. Un dono reciproco che avviene tramite la forza della parola. Ci sono parole che tendono ad una pacificazione del soggetto, parole di una bellezza profonda sorte nell’ elaborazione dei vissuti che aprono alla fiducia del domani, alla speranza di un riscatto. Mai relegare la parola ad un luogo chiuso che può nel tempo anestetizzare il suo significato.
La parola è l’arma più potente a cui possiamo ricorrere per cercare di spiegare l’ indefinibile, per colmare le fragilità della condizione esistenziale come parte essenziale dell’ essere umano, ancora la parola per imparare a sorridere ad un futuro che possa far meno paura. Più lavoriamo la parola incarnandola più diventa agito propositivo.
Lei si ricorda quanto la parola, ad esempio di un solo uomo, e annovero fra questi Nelson Mandela, abbia potuto trasformare le anime di un popolo in forza e credenza collettiva? Un uomo che ha saputo forgiare il suo pensiero e l’uso della parola per farla diventare processo storico di grande cambiamento per l’ intera umanità. Pensi, ha vissuto la prigionia per ben 27 anni e con la sola forza del pensiero ha saputo cambiare le sorti del suo popolo diventando Presidente, uomo che di quello scarto sociale ne ha fatto virtù avanzando nei principi democratici, nelle pari opportunità e nel sogno di una uguaglianza fra i popoli dove la sua parola sapeva incontrare l’ anima dell’ altro con cui si sentiva in sintonia. E che dire anche di una piccola donna come Greta Thunberg? Una grande donna che ha dato senso forte alla sua parola e alle nostre.
Abbiamo bisogno di formarci e di formare alla parola che salda e che cura, e senza educazione ai sentimenti attraverso l’ uso della parola non possiamo costruire mondi nuovi, passi adeguati per rinforzare l’ identità della persona e farla avanzare nelle sue possibilità. Come ben sottolinea il filosofo U. Galimberti nel suo testo:
“La parola ai giovani “ il sentimento non ci è dato per natura, ma si acquisisce per cultura.
Proprio la mia esperienza che include la mia infanzia e adolescenza, ed infine quella di oggi come donna, mi dà la misura di quanto sia importante “la fascinazione della parola di un insegnante” per motivare i ragazzi, per renderli capaci di aprirsi alle sfide della vita, di esporsi senza temere giudizi. E la fascinazione deriva dalla presa in carico di quel giovane, della sua storia e del suo nome che è unico per chiamarlo con affetto in profonda empatia. È importante dar parola ai suoi bisogni e ai suoi desideri per arrivare a definire il suo talento che è parte nascosta ma da sublimare in quella ricerca del sé che non dovrebbe mai mancare in un buon insegnamento che guida.
Il desiderio se viene interiorizzato plasma il pensiero e indirizza il ragazzo ad un viaggio introspettivo in continua ricerca e crescita. Insegnare a progredire nella propria autorealizzazione gratifica il giovane che è sempre alla conquista di propri spazi interiori. “Incontrare sé stessi” è percorso di formazione, lavoro impegnativo ma anche saldamente catartico che preannuncia nuovi mondi di conoscenza e di consapevolezza del sé.
Lo sguardo di chi ti accoglie unito alla parola ha una sua grande forza in un rapporto di relazione importante; l’ altro che ci ascolta se viene visto e riconosciuto mette sempre in atto nuovi meccanismi di adempimento e di crescita che noi adulti, tendenzialmente, sottovalutiamo sempre molto. Dare fiducia all’ altro attraverso lo sguardo e l’ascolto, credo sia la più alta forma di formazione, perché solo attraverso un rapporto fiduciario si possono costruire relazioni appaganti, di sostanziale evoluzione. Sull’ inquietudine, sulle paure, sulle fragilità va costruita la parola e va dato senso a quella parola incarnata.
Bisogna insegnare a convivere con le sofferenze o le frustrazioni accedendo a quella parola che non può sostare nell’ oblio perché la sua resa può arrecare danno anche irreversibile per l’ essere umano.
Il dono è dono generazionale, un testimone di umana bellezza che possiamo trasmettere alle generazioni future come a quelle che ci hanno preceduto, attraverso uno scritto, una lettera che sappia raccontare al soggetto il mistero della vita con i sentimenti che ci appartengono e ci sono appartenuti.
Perché non pensare di rinunciare al dono materiale, all’ oggetto come copertura di desideri annebbiati, investendo sul soggetto come persona con uno scritto che sappia raccontarci e raccontare, invitando il diretto interessato ad una tessitura dove l’es- sere sé stessi diventi parte costruttiva e sostanziale, preponderante sull’ avere.
Lo scritto rappresenta sempre uno rispecchiamento dove impariamo a conoscere parti di noi at- traverso la tessitura di chi si racconta.
L’educazione non è mai valore univoco, ma è sempre biunivoco e anche noi adulti, genitori ed educatori, veniamo sempre formati e trasformati dall’ incontro e dalla sua parola.
Il giovane ha bisogno di costruire il suo mondo interiore imparando a narrare soprattutto le sue fatiche e le sue paure. Ci si forma insieme e non esiste espressione egualitaria più profonda e fortunata di questa, quel condividere anche attraverso uno scritto suggella dei segni che rimangono fisse dimore in noi.
E lo scritto diviene catarsi quando abbiamo la forza di chiedere scusa se abbiamo avuto torto in una particolare circostanza o se ci siamo comportati male, o quando riusciamo a ringraziare ed essere grati alla vita se un gesto inatteso arriva cogliendoci di sorpresa.
Il dono come ricerca di sé è segno indelebile e quella scrittura farà parte di noi anche in anni postumi che non le toglieranno mai luce e fulgore. La ringrazio Francesca del suo dono che mi sprona ad esserci oggi, del suo interrogativo di cui mi ha reso partecipe e di questa memoria che da qui in poi ci lega.
Sonia Scarpante