“Non è nuovo il nome di Simonetta Ramogida sulla rivista: l’abbiamo conosciuta come scrittrice e in questo numero abbiamo il piacere di accoglierla come autrice di fotografie.”
Chi è Simonetta Ramogida
Simonetta Ramogida, nata a Roma, dopo la laurea in Scienze Politiche, consegue il Master in Giornalismo e Comunicazione di Massa presso la Libera Università Luiss, mentre si occupa di Ricerca Economica alla Sapienza, dove coordina due gruppi di ricerca rispettivamente su Piero Sraffa e sull’economia Keynesiana.

Inizia la sua carriera giornalistica seguendo per molti anni la finanza dal punto di vista di chi la fa: banchieri assicuratori, broker, analisti finanziari, con uno sguardo sempre attento però alle associazioni dei consumatori che nel nostro paese nascono attorno agli anni ottanta. Lavora per Prima Comunicazione e per il Messaggero, poi all’Agi, all’Ansa e Asca successivamente diventata Askanews dopo la fusione con TmNews, sempre nella redazione economica. I suoi articoli sono stati pubblicati anche su Paese Sera, Internazionale e la Gazzetta del Mezzogiorno. Contemporaneamente coltiva la passione per la fotografia e partecipa a diverse mostre fotografiche (La Magia dei Ponti-2008: Farda tra i Profughi – 2000; Tunisia – 1992 – Viaggio nel deserto e Marocco – 1993 con il Museo Ken Damy).
Le sue fotografie sono state pubblicate su giornali come Vanity Fair, Prima Comunicazione, Reflex, o su siti web quali ilsole24ore.com, repubblica. it. Come giornalista iscritta al Sindacato dei Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI) partecipa alla premiazione per i Nastri d’Argento e nel 2015 scrive il libro “Roma città Aperta, Vito Annicchiarico il piccolo Marcello racconta il set con Anna Magnani Aldo Fabrizi Roberto Rossellini”, edito da Gangemi. Attualmente si occupa anche di vino ed enoturismo, così importanti in questi anni in cui viene celebrato il cibo come cultura.
I suoi studi incentrati sui diritti e sugli aspetti economici della società la portano a pubblicare nel 2020 il libro “Le molestie morali, se incontri il cannibale, uccidilo”, Gangemi editore. Un libro che raccoglie ogni tipo di molestia e che, come dichiara Simonetta Ramogida: “parte da lontano, dalla mia formazione universitaria e dagli approfondimenti sui temi del lavoro, del giornalismo, delle discriminazioni, dei diritti calpestati delle donne, delle norme mai applicate per quella che si definisce parità di genere, la cui locuzione allontana dalla comprensione invece di renderla in tutta la sua chiarezza: vuol dire “uguali”, uomini e donne sono “uguali”, anche di fronte al reddito, anche nella busta paga. Lo dice la legge ma tutte le aziende lo ignorano, è un diritto, non è un problema etico”.
Che cos’è per te la fotografia?
La fotografia è un furto.
L’attimo fuggente in cui riusciamo a vedere oltre tutto ciò che si svolge sotto i nostri occhi. Ed è il nostro sguardo che cattura quell’elemento in più che non avevamo considerato e che si materializza quando diamo forma all’immagine.
La fotografia è geometria. Sono le linee geometriche a rendere unica un’immagine. Quelle che percorriamo in un istante prima di scattare e rende magico quel momento, irripetibile e quindi volatile.
Non metto mai in posa i miei soggetti e per questo rubo loro i volti e anche l’anima, quello che riescono a esprimere in quell’istante in cui sto con loro: perché la fotografia per me è empatia e non potrebbe essere altrimenti. Nasce dal desiderio di riprendere un’espressione del soggetto che mi sta di fronte nella sua immediatezza.
Ma mentre rubo il suo cuore io sono con lui, come in un abbraccio e l’immagine esprime quel che so di lui in un frammento di attimo che un secondo dopo non sarà più visibile, neanche a me. Per questo la fotografia è per me movimento.
Ma il movimento della fotografia, ovvero dell’immagine, non è di per se stesso il movimento del soggetto fotografato. No, è un elemento indipendente che ha una sua originale natura e caratterizza quello scatto nel suo essere dinamico, non statico pur in un’immagine che per sua natura è “ferma” in quella frazione di attimo. Fotografo naturalmente anche i miei amici e le foto più belle sono quelle in cui non si sono accorti dello scatto, così che quando ho recapitato loro in dono la fotografia sono rimasti veramente… di stucco, come nella foto di Manuela e Veronica scattata nel 2003, che le ho donato nel 2022.
Il tuo percorso di ricerca artistica si esprime nella fotografia istantanea, ma anche nella fotografia concettuale come nella serie “La magia dei ponti” reali e immaginari, e nel fotogiornalismo che si lega alla tua professione con gli scatti realizzati in ambito cinematografico o per raccontare le storie di migrazioni in “Farda tra i Profughi”.
Mi piace fotografare a sorpresa, tuttavia le mie fotografie sono assai varie e molto diverse tra di loro.
Passo anche lunghi periodi senza fotografare. Non so fotografare i luoghi che conosco. Anzi, che mi sembra di conoscere, perché so, invece, che se li attraversassi con la macchina fotografica, vedrei cose mai viste. Ma questo per me è una specie di culto. Preservare i luoghi del cuore. Per cui non riesco a fotografare Roma, città dove sono nata, se non in alcune sue particolari espressioni: il Tevere quando si colora come un acquarello, i ponti che restituiscono il mito della città.
Ho trovato anche Assisi ed ho fotografato queste tre Sorelle davanti a un … ponte. Col tempo sono diventata visionaria. Poi ho girato lo sguardo ed ho visto un ponte a forma di tre archi ed ho ricordato l’antico proverbio arabo che dice: “L’arco non dorme mai”.
Così sono andata a cercare i ponti delle altre capitali del mondo ed ho trovato Londra col suo Tower Bridge, bellissimo, seducente, imponente, vivo. E allora ho voluto scoprire New York in cerca di altri ponti, e poi i ponti li ho immaginati, cercati tra mille cose, come nella foto di Venezia e l’acqua alta. E la vita è fatta di ponti, di punti di connessione tra un luogo e un altro, tra un istante e un altro, tra ciò che visivamente ci appare in un preciso momento e poi nell’istante successivo scompare mentre danziamo nella danza della vita.
Il ponte come qualcosa in più di un elemento architettonico, un luogo di transito, il ponte è anche più di una piazza sospesa sull’acqua ma per comprenderlo bisogna fermarsi a riflettere, solo così si può intuire che cosa c’è dietro le cose che noi guardiamo, perché quando vediamo in realtà è tutto il nostro corpo che si mette in movimento di fronte all’emozione che ciò che ammiriamo suscita. Tutti i nostri sensi sono in esplorazione. Così il ponte rientra nella sfera della comunicazione tra i popoli.
Poi ci sono i ponti visionari, come quello della processione del Venerdì Santo in Calabria. E poi il ponte: il Muro di Berlino restituendo in tal senso al concetto di “ponte” il ruolo di collegamento tra realtà e immaginario, tra passato e futuro. Con il tempo il senso del ponte per me si è allargato e alla fine ho visto un ponte anche nell’immagine di Anna che guarda il mare con un enorme cappello… come un ponte…
E’ così che mi sono accorta che avevo fotografato tanti “ponti” reali e immaginari e nel 2008 ho realizzato la mostra “La magia dei ponti” a Roma. Ne hanno parlato anche repubblica.it e ilsole- 24ore.com, Vanity Fair. Per questo continuo a vedere ponti dove si apre uno spazio e rilevo una connessione.
Poi è arrivato il fotogiornalismo. Naturale, visto il mestiere che faccio. Ma certo l’ho praticato molto meno di quanto avrei potuto. Ma qualche scatto interessante lo conservo ancora, come il saluto di molti “compagni” al funerale di Enrico Berlinguer.
Come giornalista cinematografica ho fotografato attori e registi, cercando di rendere non banale l’immagine di chi con l’immagine lavora. Confesso che a volte i miei soggetti sono stati infastiditi dalla mia presenza ma ho cercato di fare buon viso a cattivo gioco, perché questo soprattutto è un mondo dove si ama mettersi in posa. Così mi è capitato di fotografare Carla Bruni, e Woody Allen, Franca Valeri, Gigi Proietti, Enzo Gragnaniello, Vittorio Taviani.
Nell’ambito del fotogiornalismo ho raccontato una storia di migrazione dopo aver visitato assieme a Manuela Metelli il Centro di Prima Accoglienza di Isola Capo Rizzuto gestito dalla Croce Rossa.
La mostra che ne è seguita, “Farda tra i Profughi” ha accompagnato le celebrazioni del centenario della nascita della Croce Rossa Italiana e questa per noi è stata una vera emozione. Perché mi piace lavorare anche in team. Era la prima volta nel 2000 che si consentiva a due fotografe di entrare in un Centro di Prima Accoglienza e anche noi non ne avevamo la consapevolezza quando giravamo accompagnati da un Carabiniere, dopo aver fatto precisa richiesta alla Prefettura, attraverso l’agenzia di stampa dove lavoravo.
Quali fotocamere utilizzi e da dove nasce l’interesse per la fotografia?
Ho iniziato a fotografare con una reflex Olympus che avevo poco meno di 20 anni ma la fotografia era a casa mia da sempre. Mio padre era ossessionato dalle fotografie. Aveva un amico, compagno di rastrellamenti negli anni del fascismo a Roma che fotografava e sviluppava da solo le sue foto. E io lo ricordo ancora Luciano sempre con tanto affetto, con la sua faccia deturpata da una mina, con la sua macchina fotografica al collo che ci immortalava assieme a mia sorella quando eravamo bambine.
Poi la fotografia mi ha raggiunta nella sua espressione antropologica. Ho lasciato l’Olympus e ho comprato una Nikon FM2 che non ho più lasciato, anche se da qualche anno uso pure una Nikon digitale ma la mia inclinazione è “manuale”.
Ho sempre fotografato in bianco e nero. Credo che esistano più sfumature di colore nel bianco e nero che nelle fotografie a colori. Tuttavia a volte i colori si combinano in nuances che rapiscono il cuore, oppure i colori sono talmente intensi, saturi, che sembrano esplodere.
Allora si, mi piace fotografare a colori. Negli anni ottanta in particolare l’esplosione delle immagini sulle tradizioni popolari mi ha avvicinato a questo mondo ma la mia curiosità mi portava verso artisti come Franco Fontana e alla ricerca delle ombre come espressione psicanalitica della fotografia, che ha a che fare col sogno e con la trasfigurazione onirica dell’oggetto fotografato.
Sono particolarmente legata a tre immagini di Lilli, scattate a Isola Capo Rizzuto sulle rocce formate dai fossili e dalle conchiglie del mare dove trovavo la bellezza, il mito, la storia.
Quali autori hanno influito sul tuo percorso?
C’era un tempo che prendevo il treno e andavo a vedere mostre fotografiche in altre città molto spesso: Modena, Reggio Emilia, Venezia, anche Brescia, Firenze, Bologna. La mostra che mi ha impressionato di più è stata quella di Man Ray a Palazzo Fortuny, a Venezia negli anni ottanta. Il mio autore preferito rimane Luigi Ghirri. Di lui apprezzo tutto: mi piacciono i suoi colori, la sua poetica, la sua ricerca di quei toni che rimandano sempre a qualcosa di equilibrato, senza sbavature, mi rapisce la sua capacità di rendere magico il quotidiano, quasi in un elogio minimalista della normalità. Certo ho studiato Henri Cartier Bresson, Robert Capa, Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin e adoro le fotografie di Letizia Battaglia e Tano D’Amico, certe immagini di Helmut Newton mi lasciano senza fiato, mi piace pure la fotografia di Annie Liebovitz, ma questa non è “la mia fotografia”, mentre la fotografia di Gabriele Basilico, mi fa ritrovare ciò che dicevo prima: al di là di tutto, la fotografia è geometria…
Quale messaggio vorresti dare alle altre donne che sono alla ricerca del proprio potenziale espressivo?
Guardate con i vostri occhi, sentite con tutto il vostro corpo.
Immagini di Simonetta Ramogida
Intervista a cura di Mina Tomella