Antonella tu fai parte dell’Associazione
La cura di sé e a suo tempo
ti sei formata attraverso
il mio percorso di scrittura terapeutica.
Che cosa ha significato
questo viaggio introspettivo
con la scrittura e cosa ti è stato insegnato?
Ragazza bionda che scrive un biglietto

Ho iniziato il percorso di scrittura terapeutica con l’intento di avere un approccio diverso con le persone detenute con le quali già da anni mi relazionavo con corsi di mediazione linguistica, penale e scrittura condivisa. A questo pensavo perché come sai, avere a che fare con persone private della libertà non è cosa semplice. Ma quando mi sono seduta per la prima volta a quel grande tavolo circondata da volti sconosciuti mi sono resa conto che avrei dovuto affrontare una grande prova in un viaggio a ritroso nel tempo, un’avventura altra rispetto a quanto avevo immaginato.
Ai blocchi di partenza una lettera da scrivere, la prima: lettera a me stessa. In genere non ho difficoltà a scrivere, ma una cosa è scrivere di me stessa; chi non ha la velleità di supporre che la propria vita sia degna di essere raccontata e condivisa? Altro invece è scrivere a me stessa. Nel primo caso scrivi ciò che reputi più interessante, attraente o coinvolgente per chi ti leggerà. Quando scrivi a te se lo fai con intenzione, tiri fuori tutto, o perlomeno quanto ti senti di condividere in quel momento con chi ti sta intorno e che prima di te si è esposto o lo farà dopo grazie al coraggio che hai usato per farlo e hai infuso al gruppo. Nel corso degli incontri che si sono susseguiti e dei successivi approfondimenti, grazie alle numerose lettere indirizzate a interlocutori reali, sono emersi sentimenti che avevo relegato in un angolino del mio mondo interiore.

È stato difficile, faticoso, penoso a volte con la commozione che tracimava in lacrime. Affrontare questo percorso è come scartavetrare la carena di una barca: si fa una gran fatica, ma poi i risultati sono sorprendenti.

Scartavetrare non per cancellare o dimenticare, ma per far emergere ciò che è nascosto o sepolto sotto al dolore, per osservare l’episodio o la persona che ci ha procurato sofferenza da una prospettiva diversa, per fare in modo che rievocare quel momento non ci faccia più stare male come nel momento in cui è accaduto.

Non è la promessa del miracolo della felicità, ma un invito a tirare fuori tutto quello che ci fa stare male: quel sassolino nella scarpa, quel nodo ingarbugliato che vorremmo tagliar via con un colpo di forbice e che invece con pazienza impariamo a sciogliere.

Cosa mi ha insegnato la scrittura terapeutica? Molto. Dovessi sintetizzare in poche parole sceglierei: ascolto, coraggio, fiducia, pazienza, resilienza, rispetto. Per quanto riguarda invece la conduzione del laboratorio, la prima cosa importantissima è che non c’è un io né un voi, ma un noi sempre e comunque perché chi conduce è parte integrante del gruppo e si espone in prima persona condividendo i propri scritti.

Ci puoi spiegare con semplici parole cosa leggi dietro la dicitura scrittura terapeutica e alcune parole chiave che puoi legare a questo metodo?

Quando il corpo si indebolisce a livello fisico usiamo terapie mediche sotto varie forme solide o liquide.

Quando la sofferenza è nel cuore, nell’anima, nel nostro mondo interiore, la scrittura è un potente mezzo terapeutico di grande aiuto perché la scrittura cura. Parlare delle proprie sofferenze vissute e patite va bene, ma tracciarle su un foglio con la penna ci permette innanzi tutto di dedicare del tempo a noi stessi e osservare quanto abbiamo scritto con la stessa attenzione che riserviamo a una fotografia che ci è cara. È un po’ come guardarci da fuori.

Le parole scivolano via e a volte per fretta, pudore o vergogna ciò che abbiamo detto non è proprio quanto intendevamo, non tutto, o non nel modo che sarebbe stato più incisivo. Questo è quanto ho risposto a una ragazza di seconda media che mi ha posto la tua stessa domanda. Il fatto che assumesse lei una terapia medica e che fosse seguita da un sostegno psicologico l’ha convinta a provarci. Come ho accennato prima, parole chiave importanti ce ne sono, la prima in questo caso è la fiducia del gruppo. Se la conquisti e riesci a mantenerla sino alla fine hai raggiunto l’obiettivo.

La tua esperienza è maturata dopo questo percorso e ha provocato nuovi stimoli o desideri?

La mia esperienza personale, ovvero testata su me stessa, mi ha convinta a voler estendere e applicare gli insegnamenti ricevuti dal metodo Scarpante negli istituti penitenziari in cui operavo con altri progetti.

Un bel desiderio da realizzare è quello di introdurre ufficialmente il metodo in qualsiasi realtà, dagli anziani a scendere sino ai bambini perché la sofferenza patita, subita o inferta è una delle poche cose che è uguale per tutti a prescindere dall’età, dalla condizione sociale o dal genere in cui ci si riconosce. Per quanto difficile lo si possa immaginare, il desiderio di stare bene con noi stessi e di riconcigliarci con la vita è insito in ognuno di noi.

Questo progetto è entrato nel sociale anche nelle tue realtà sia per quanto riguarda pro- getti nelle case circondariali come San Vittore a Milano sia per progetti che si rivolgono ai ragazzi nelle classi degli istituti scolastici. Cos’hai imparato da queste esperienze e quali sono i rimandi che ti sono arrivati?

L’esperienza nel mondo carcerario, in modo particolare nel reparto dei detenuti ‘protetti’, in cui il progetto era stato approvato e svolto prima del Covid e poi riproposto a settembre 2022 mi ha insegnato ad essere accogliente e paziente.

Chi tra loro segue il laboratorio di scrittura terapeutica sin dall’inizio sparge la voce in un tam-tam di richiamo col risultato che quasi ogni volta ci troviamo con un nuovo corsista, uno appena entrato in carcere, come a volerlo subito mettere in salvo dalla frustrazione dello stato detentivo. Se le prime volte temevo di perdere l’attenzione dei partecipanti dovendo spiegare per l’ennesima volta il metodo ai nuovi arrivati, ora la cosa mi fa quasi piacere perché significa che la cura e il beneficio che ne trae chi mi segue sin dall’inizio, li spinge a voler aiutare gli altri. Vedere uomini, presunti colpevoli di reati pesanti, aprirsi, confidarsi e condividere i propri scritti; vedere gli sguardi vuoti illuminarsi in un guizzo di emozione; il loro rammaricarsi ai saluti nell’attesa del prossimo incontro è estremamente gratificante.

Per quanto riguarda i ragazzi – per me era la prima volta – che ho seguito in due classi di seconda media, ero piuttosto preoccupata, temevo di non esserne all’altezza perché la mia esperienza, per quanto consolidata, riguardava persone adulte e per quanto dolore, frustrazione o disagio soffra una persona d tenuta o libera, il confronto è alla pari, ma con gli adolescenti è tutta un’altra cosa.

Bisogna entrare nelle loro corde in punta di piedi con tatto cercando di usare termini e atteggiamenti appropriati che non li inducano a chiudersi a riccio.

Le emozioni che leggevo nei loro sguardi, la reticenza di alcuni, il coraggio di altri nel farmi entrare nel loro mondo mi hanno regalato sensazioni fortissime. I ragazzi hanno un bisogno estremo di comunicare, di esternare sentimenti, paure, dubbi; comunicare a voce o per iscritto per loro, totalmente immersi nel mondo dell’elettronica, del virtuale e del non tangibile a livello tattile sensoriale è stato molto impegnativo.

Si sono messi in gioco tutti indistintamente oltrepassando i limiti del pudore e dei tabù dei vari: ‘di questo non si parla’, ‘questo non lo voglio dire agli altri’ ‘se poi mi prendono in giro?’… Alla fine del laboratorio ho fatto compilare un questionario volutamente anonimo e quanto ne è emerso mi ha commosso sino alle lacrime.

Hai scritto un libro che uscirà a marzo di quest’anno dal titolo ‘Zia Agata’ pubblicato con la casa editrice Morellini, un romanzo che si addentra nella storia ermetica di una famiglia, una delle tante che possono far parte della vera realtà. Una storia che si addentra nei nodi e nei non detti e anche qui fa la sua appa- rizione la scrittura terapeutica dove tu sei riuscita persino a darle specificità scientifica come da questionari sviluppati a suo tempo nel gruppo di formazione cui facevi parte.

Ci puoi raccontare cosa ha significato per te questa scrittura e cosa hai elaborato nel corso di questo viaggio introspettivo che diviene forza e aiuto per il lettore?Contro me stessa abituata a scrivere racconti ispirati alla mia esperienza in carcere, piuttosto che gialli o noir in cui le indagini e gli eventi delittuosi hanno il sopravvento sull’introspezione, ho cercato più volte di cambiare rotta.

Zia Agata è un dramma familiare, un concatenarsi delle storie di quattro donne le cui vite sono legate in modo indissolubile dal dolore. Come diceva Frida Khalo, l’arte più potente della vita è fare del dolore un talismano che cura. Attraverso la riesumazione del dolore patito sin dall’adolescenza, grazie alla scrittura terapeutica e al ritrovamento di alcune pagine di vecchi diari, le donne si riconcigliano con la vita e con i propri affetti in bilico. Le parole non dette, le verità taciute vengono svelate e i rapporti si riallacciano in una nuova e salda unione. Quando ho iniziato la stesura del romanzo, in una sfida contro me stessa abituata a scrivere racconti ispirati alla mia esperienza in carcere, piuttosto che gialli o noir in cui le indagini e gli eventi delittuosi hanno il sopravvento sull’introspezione, ho cercato più volte di cambiare rotta.

A tutti i costi uno dei personaggi spingeva per voler uccidere qualcuno e dati gli eventi narrati nella storia, almeno un morto ammazzato ci sarebbe stato bene.

Sebbene la tentazione di assecondare la vena gialla fosse forte, non era il mio reale intento.

La mia insegnante di scrittura creativa parecchi anni fa ci disse che bisogna entrare in contatto con i propri personaggi, bisogna farli sedere a tavola, bisogna parlarci, portarseli a letto e litigarci proprio come si fa con le persone reali. Ci ho litigato parecchio con quel personaggio e alla fine ho avuto la meglio, anche se a caro prezzo.

Ho patito molto nello scrivere questo romanzo, ho messo in gioco sentimenti e stati d’animo, immedesimandomi in ognuna di quelle donne

Ho avuto quattordici anni, ne ho avuti venti e venticinque in epoche diverse nel momento in cui hanno scoperto di essere incinte.

Sono stata madre, figlia, sorella, nonna, padre e marito. Con loro ho patito abbandono, bullismo, frustrazione, solitudine, silenzio, rimorso e paura, ma abbiamo trovato coraggio, aiuto e sollievo nella terapia della scrittura. Zia Agata è un contenitore per temi sociali in cui il lettore, anche adolescente, può immedesimarsi e riconoscersi per le stesse emozioni vissute o sofferte.

Sonia Scarpante