ragazza bionda con luci fra capelli
Dentro di noi si muove spesso
(per alcuni sempre,
per altri ogni tanto)
un mondo di pensieri,
emozioni, parole come frecce
passano e ci pervadono,
ci alterano le sensazioni,
e ancora dubbi, paure,
tentazioni, desideri,
sogni, sensi di colpa…
ma conosciamo veramente
cosa succede dentro e fuori
la nostra testa,
dentro e fuori la nostra pancia?

Perché la questione è che ciò che conosciamo lo possiamo gestire.

Mentre ciò che ci assale all’improvviso, o anche qualcosa che sentiamo assiduamente, ma che consideriamo come qualcosa di avverso e che ci fa soffrire, continuerà a farci stare male.

Il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti parlando di emozioni e di ragazzi dice come sia importante aiutare bambini, adolescenti e giovani a dare un nome a ciò che provano, a comprendere che cos’è perché solo così possono gestirlo.

“Aiutare i ragazzi a riconoscere quello che stanno vivendo dentro, anche quelle emozioni negative a volte tanto pervasive dalle quali vorrebbero scappare. Metabolizzarle, dando loro un nome e un significato aiuta gli adolescenti ad affrontarle nel modo giusto quando si ripresentano, così come il picco emozionale positivo”.

Come sappiamo l’adolescenza è un’età tanto bella quanto difficile sia per i ragazzi sia per i genitori.

I ragazzi vivono sensazioni contrastanti: ‘sono grande e mi stacco da quello che mamma mi dice sempre di fare e allo stesso tempo sono piccolo e avrei bisogno della mamma’.

‘Ho bisogno del mio spazio, dei miei amici, di stare da solo e tutto quello che i genitori mi dicono è qualcosa che mi indispettisce e che non voglio nemmeno ascoltare’.

E in più a livello cerebrale è attiva l’ultima fase di proliferazione e di pruning di neuroni, cioè il crearsi di nuovi neuroni, il consolidarsi di vecchie e nuove connessioni, e il morire di quei neuroni che non servono.

Capiamo quante condizioni psicologiche e neuro-fisiologiche vivono i ragazzi? Oltre al fatto che il loro corpo sta cambiando…

E i genitori? “Non capisco perché non mi ascolta più, non mi parla, è come se non ci fossi, ecc.” e vivono tutto questo come un affronto alla propria sensibilità, al proprio amore.

Creano anche loro tensione e smettono di essere quei contenitori dove comunque i ragazzi possono esprimere le proprie emozioni quando non le capiscono, quando sono troppo forti e non le sanno gestire.

Quel contenitore che fin dai primi mesi di vita permette al bambino di sperimentare, sapendo che c’è l’abbraccio che conforta, che accoglie, che dà nuova forza per esplorare altre cose nuove.

È quindi importante che i ragazzi che cominciano a incontrare nuovi amici, nuovi ambienti, che cominciano a sperimentare il proprio corpo, possano avere qualcuno al fianco che al momento giusto li aiuti a capire cosa sta succedendo dentro di loro, cosa sono le farfalline che sentono nella pancia, perché hanno paura, ecc. ma anche quanto possono fidarsi delle proprie emozioni, se ci sono condizionamenti o se c’è la forza per reagire e per capire cosa vogliono veramente.

E principalmente aiutare i ragazzi a rialzarsi dai propri errori, ad interpretarli per trovare nuovi insegnamenti che non li riportino nelle stesse cadute ma che gli permettano di farne sempre di nuove per crescere anziché rimanere fermi alla prima delusione.

Se i ragazzi invece non riescono ad interpretare emozioni e fallimenti rischiano di cadere in alcool o droghe che gli permettono di dimenticare la propria condizione e di provare nuove emozioni raggiungibili più velocemente di quanto la vita normale gli permetterebbe.

È quindi importante essere quei contenitori attenti che osservano, ascoltano ed entrano in azione quando c’è necessità, quando questa viene richiesta, senza essere invadenti e nemmeno assenti.

E se per i ragazzi è importante conoscere quello che stanno vivendo che gli arriva in modo così veloce, forte e sregolato per riuscire a capirlo e gestirlo, noi adulti siamo sicuri di sapere cosa stiamo vivendo o a volte ne siamo coinvolti senza riuscire a reagire?

Se io mi sento triste e so perché mi sta succedendo, ascolto la mia tristezza, l’accolgo con la consapevolezza che è un momento che poi passa. È diverso dal sentirmi male e non sapere perché.

Se mi sento sola, a volte anche nella moltitudine, e riesco ad individuare che sto vivendo una solitudine interiore, a soffrire questa solitudine, a parlare con questa solitudine, a sorridere di questa solitudine e a cominciare a chiedermi cosa posso fare, come posso farmi aiutare… Allora la solitudine non si impossesserà di me come qualcosa che mi travolge e non mi fa più muovere.

Così come le paure, se non gli diamo il giusto peso, lasciandole fluire, ci bloccano e non riusciamo più a fare ciò che desideriamo.

Vi riporto un piccolo esempio di un episodio che mi è appena capitato. È venuta a trovarmi un’amica con il suo barboncino, un batuffolo grigio scuro, che quando mi ha vista ha iniziato ad abbaiare. Poi mi ha detto di prenderlo in braccio che così si sarebbe abituato a me. Diciamo che io non ho molta dimestichezza con gli animali in genere, mi piacciono ma ho sempre un certo timore a toccarli. Quindi dentro di me è partito il blocco… “No non posso…” Mi sentivo tanto scema a non prenderlo in braccio, tanto avevo il desiderio di farlo. Eppure una stupida paura, che chissà da dove viene, mi bloccava e mi sembrava impossibile prendere in braccio quel cagnolino che mi ringhiava ma che in fondo richiedeva solo coccole. Finché questa amica me lo ha praticamente buttato fra le braccia. Mentre questo accadeva penso mi siano partiti mille pensieri: e adesso come farò e se mi mordesse…e allo stesso tempo la felicità che questa cosa potesse succedere. Mi sono così trovata in braccio questo batuffolino che si è lasciato coccolare senza lamentarsi e mi sono sentita benissimo.

Un esempio semplice ma che può fare capire come le paure sono nella nostra testa, ce le teniamo come se fossero la cosa più normale mentre invece ci bloccano.

Certo che se al posto del barboncino avesse avuto in braccio un pitone penso che sarei scappata anni luce lontano… e non avrei fatto quel passaggio… ops…

E perché mi ha messo il barboncino in braccio in quel modo?

Perché lei non poteva comprendere la mia paura, che esisteva solo per me, solo nella mia testa, collegata a qualche avvenimento del passato dimenticato dalla mia mente razionale ma non dalla mia mente emozionale. Lei non poteva vedere quell’attivazione che dentro di me faceva scattare quel blocco che non mi permetteva di fare qualcosa che comunque desideravo. Eppure in quel momento, prima di prendere in mano il cagnolino, erano anche partiti pensieri che cercavano di farmi capire quanto la mia paura mi stesse bloccando e che alla peggio sarei stata morsicata, eppure rimanevo a guardare quel barboncino come un’ebete consapevole della mia incapacità di affrontare quella paura.

Insomma il nostro mondo interiore a volte è così complicato, passiamo dal conscio all’inconscio, ci lasciamo pervadere da sensazioni che ci destabilizzano e ci immobilizzano e che spesso ci trasciniamo per anni.

Fermarci e chiederci cosa ci sta succedendo, come potrei gestire paure e sofferenze o emozioni forti può comunque aiutarci a trasformare un malessere incompreso in un malessere gestito, accettato, fatto fluire e lasciato andare.

Con la consapevolezza che possiamo gestire meglio emozioni e situazioni anche se ci facciamo guidare dalle parole giuste.

Oggi in un libro leggevo che dovrebbero sparire dal vocabolario tutte quelle parole che esprimono ciò che ci separa dagli altri o ci fa creare attrito con gli altri, ad es. odio, disprezzo, invidia, ecc. come a sottolineare quanto le parole abbiano energia e creino la nostra realtà.

Chissà se non ci fosse la parola invidia, se noi potessimo provare ancora invidia? Ops nasce prima l’uovo o la gallina? Scusate questo loop che apro, come un flash passato per la mente… nasce prima il sentimento o la parola che lo esprime?!

Non ve lo so dire. A logica una parola è nata per esprimere un sentimento e se questa parola che dà forza a questo sentimento non ci fosse? Avrebbe meno forza l’invidia?

A parte questa breve riflessione… Importante sarebbe usare le parole giuste, che esprimano un’apertura, un movimento, non un bloccare, fermare, togliere speranza.

Oggi dicevo ad un’amica che sta vivendo un lutto: “Tuo papà ti vorrebbe felice… e non solo lui… E prima di tutto sei tu che ti sei voluta (in questi ultimi mesi) e che ti vuoi felice”

Giustamente la sua risposta è stata: “Non riesco a essere felice…”

La mia provocazione era un modo per farle capire che oltre la sua tristezza c’era comunque la felicità, la serenità… E la sua risposta aveva il suono di “Non posso farcela…”

Le ho chiesto di trasformare quella risposta perché l’espressione: “Non riesco…” non era ammessa. La sua risposta è stata: “Io voglio essere di nuovo felice!”

Spesso basta fare un piccolo passo in più per andare oltre un’emozione che ci pervade e non ci fa vedere la luce, o anche solo una piccola tristezza, per trovare un nuovo modo per esprimerci e mettere davanti a noi una luce, anche se piccola e non convinta, piuttosto che il buio.

Per concludere penso sia importante riconoscere quanto stiamo provando, capire se ci blocca o se ci dà energia, usare le parole giuste per esprimerlo, evitando i non, le negatività ma mettendo sempre un po’ di luce nelle nostre parole.

E poi aiutiamo chi ci sta vicino, adolescenti e giovani in particolare, a riconoscere le proprie paure ed emozioni, a vivere errori e fallimenti (approfondiremo l’errore in un prossimo articolo) con la serenità di potersi rialzare e imparare e a mettere positività nelle parole e nei pensieri.

Monica Canu